lunedì 24 febbraio 2014

CADORO S.p.A.: i 50 anni di una piccola ma efficiente catena della GDO a controllo familiare


Questo post nasce da una conversazione, alcuni mesi or sono, con due componenti la famiglia imprenditoriale che controlla una piccola catena di Supermercati, la Cadoro S.p.A. di Quarto d'Altino (Venezia), i quali mi parlarono dell'intenzione di ricordare i cinquant'anni di vita della loro organizzazione di vendita inquadrandola nel contesto regionale (il Veneto) dove principalmente essa opera, e in quello più generale della GDO.
Una intenzione che mi apparve subito di interesse, perché  rigettando l'ipotesi di effimere celebrazioni giubilari  si proponeva di mettere in luce il ruolo che la nascita di razionali organizzazioni di distribuzione dei beni alimentari ha avuto non solo nella modernizzazione del nostro paese, ma anche nel cambiamento dei modi di acquistare/consumare i beni alimentari.
Occupandomi per mestiere di storia d'impresa, rimasi favorevolmente colpito dall'idea che due giovani imprenditori, coinvolti oggi dal padre nel passaggio generazionale, si ponessero il tema della storicizzazione della attività di famiglia, vista non tanto dal punto di vista del successo economico, quando del contributo fornito alla comunità territoriale cui quella esperienza appartiene.
Poiché sul tema esiste ancora una scarsa letteratura, per di più rivolta ai soli addetti ai lavori, provo a sviluppare alcune considerazioni, tenendo anche a mente che il tema dell'alimentazione, oggetto di EXPO MILANO 2015, si intreccia per forza di cose con la differenziata efficienza/correttezza delle variegate filiere di operatori che ruotano attorno ad essa.
La piccola catena veneta origina, nel 1964, dalla macelleria-gastronomia che Cesare Bovolato aveva aperto pochi anni prima a Mestre, la frazione veneziana di terraferma che andava all'epoca conoscendo una forte crescita demografica indotta dallo spostamento di parte della popolazione della città lagunare.
La nascita di Cadoro è in sostanza parte del nuovo modo di concepire la distribuzione alimentare sviluppatosi in Italia grazie all'iniziativa di Nelson Rockfeller, uomo d'affari e politico statunitense, che nel 1957 aveva dato vita  con alcuni soci italiani, tra cui la famiglia degli industriali cotonieri Caprotti  alla Supermarkets Italiani S.p.A. Fu una combine da cui Rockfeller uscì tuttavia presto, cedendo proprio ai Caprotti la sua quota del 51%.
Nel 1965, con l'assunzione della sua guida da parte di Bernardo Caprotti e il più o meno contemporaneo abbandono dei restanti soci italiani, la catena  più tardi ribattezzata Esselunga dalla "esse" allungata disegnata per l'insegna dei punti vendita dall'affermato designer svizzero Max Huber  era costituita da 15 supermercati, 10 a Milano e 5 a Firenze. Il che testimoniava di un radicamento ancora lento della nuova forma distributiva, anche se nei primi anni Settanta il trend di sviluppo andò accelerandosi. E ciò perché il crescente volume d'affari realizzato dalla società andò generando effetti imitativi, con l'ingresso di nuovi operatori che, dopo essersi insediati dapprima nella capitale, e poi a Napoli, Genova e Torino, si estesero rapidamente in un numerosi altri capoluoghi di provincia.

Fu in questo contesto che la macelleria-gastronomia mestrina dei Bovolato cominciò ad estendere il giro d’affari grazie all’apertura di altri punti vendita, così partecipando all’avventura della moderna distribuzione alimentare in un paese appena investito dal cd. miracolo economico che andava trasformando il paese in una economia compiutamente industriale. Solo che l’obiettivo di questa iniziativa imprenditoriale, contrariamente ai Caprotti che miravano a un insediamento a vasto raggio, apparve subito legata all’ambito veneto. Con ciò dando vita a un originale rapporto con il territorio. È noto come una impresa – ogni impresa – sia legata, soprattutto nel nostro paese, sia naturalmente legata al territorio nel quale essa nasce. E poiché Cadoro nasceva in Veneto, il contesto in cui essa andò crescendo fu quello di una regione divenuta di fatto una sorta di area-cerniera tra un Nordovest a maggior sviluppo relativo e un Sud miserabile. Un Veneto in cui dovevano convivere a lungo sia gli elementi della modernità (il polo industriale di Porto Marghera ad alta intensità di capitale, ma anche gli antichi centri lanieri dell’Alto vicentino), sia l’arretratezza e la marginalità del rodigino e del bellunese.

Sarà interessante, se i propositi dei giovani Bovolato troveranno sbocco in qualche studio dall’azienda commissionato, capire le modalità da questa seguite nella propria crescita, il vantaggio competitivo di alcuni insediamenti (oggi sono venticinque, la maggior parte in Veneto, con alcune propaggini in Emilia-Romagna e in Friuli), nonché i vari momenti innovativi di cui essa è stata protagonista: anche quelli apparentemente banali, come ad es. l’introduzione del latte fresco che Cadoro realizzò prima di altre catene, o quelli di “governance” con l’affidamento da parte del fondatore di deleghe di peso ai figli, cosa – ahimè  ancora non usuale nelle imprese a controllo familiare.
Personalmente mi incuriosisce – stanti le limitate dimensioni del gruppo, peraltro qualche anno fa appetito da una catena spagnola (Mercadona S.A., quasi 1.500 punti vendita) che intendeva acquisirla per testare le possibilità di uno "sbarco" in Italia –  la scelta, invero strategica per il consolidamento del marchio, di affiancare una propria private label a quella del gruppo d’acquisto cui l’azienda aderisce. Anche in questa politica si scorge l’originalità del caso di studio qui a grandi tratti descritto.
È comunque l’intero settore della GDO che è opportuno sia oggetto di indagine storiografica, se non altro per il ruolo che essa ha assunto – dopo una prima stagione di massificazione/standardizzazione dell’offerta – nell’affinamento di più consapevoli stili di consumo individuali e collettivi, e quindi nella proposta di prodotti qualitativamente migliori, di cui proprio la private label è stata non poche volte (e lo sarà ancor di più in futuro) canale privilegiato, nonché elemento di differenziazione e di marketing





domenica 23 febbraio 2014

Il risveglio di Ponzano, ovvero del nuovo inizio della Benetton

qs post riproduce l'articolo comparso oggi
su monitor, il settimanale di veneziepost


Bene, ormai è certo. La Benetton, dopo aver perso ricavi, profitti e smalto, e dopo aver tergiversato sul come uscire da una crisi strutturale (la sua, non quella mondiale), ha finalmente deciso di percorrere la strada della riorganizzazione e di focalizzarsi sul cor business, il che nel caso specifico significa dismettere i marchi minori e concentrarsi su quelli storici di United Colors of Benetton e Sisley. È questo il mandato che sarà affidato al nuovo a.d., che rumors insistenti – seppure smentiti da Ponzano – indicano nel tedesco Bruno Salzer, già uomo forte di Hugo Boss nell’era Marzotto: un manager che ha dato buona prova nel rilancio di aziende dal profilo appannato, e la cui solida esperienza nel settore dell’abbigliamento ben si integrerebbe in una organizzazione che ha sempre visto l’azionista maggioritario opportunamente defilato rispetto alla gestione concreta del business.
 
Indipendentemente da chi affiancherà Alessandro Benetton nel restyling di Ponzano, può essere utile soffermarci su alcune caratteristiche di quella che è stata indubbiamente la prima azienda “globale” del nostro paese, o almeno la prima che su un mercato globale ha giocato la propria immagine: a partire da quel “made in EU” che sostituì il “made in Italy” nelle sue etichette, e che tanto scandalo fece all’epoca. Quell’etichettatura stava a significare la vocazione non provinciale di una iniziativa imprenditoriale che intuì presto il vantaggio competitivo di essere glocal, un vantaggio poi colto a piene mani e che si rivelò in grado di generare per anni e anni rilevanti profitti e una straordinaria liquidità.
 
Profitti e liquidità che andavano in qualche modo collocati, e da lì iniziò una strisciante scissione tra i Benetton e il loro business, con investimenti che portarono a importanti perdite (l’avventura nelle attrezzature e abbigliamento sportivo), poi sostituiti da un interesse a mio parere eccessivo nelle utilities (dalle autostrade alla ristorazione, da Telecom ad Alitalia), via via diversificando.
 
Tali strategie davano per scontato che il business principale avrebbe continuato a godere ottima salute. L’essere il primo grande gruppo globale nell’abbigliamento informale sembrava fornire certezza in una espansione continua. Non fu così: errori in più di qualche collezione, appesantimento dei costi dovuti a una organizzazione che da snella si era appesantita, l’emergere di competitors aggressivi (Zara, e H&M) in grado di proporre nuovi stili e di catturare, con prezzi più bassi e modelli continuamente rinnovati, quelle giovani generazioni sulle quali Ponzano aveva costruito il successo, determinarono una progressiva caduta di redditività, deteriorandone l'immagine friendly.
 
È noto come le multinazionali attive nei settori tradizionali non siano molto veloci ad avvertire la gravità di una stagnazione/caduta delle vendite, spesso banalizzata come congiunturale. Così fu per i Benetton che, in altre faccende affaccendati (incombevano i problemi di Telecom, e poi di Alitalia), non percepirono immediatamente i rischi impliciti di questa disaffezione verso i marchi – invero incongruamente cresciuti di numero – del loro gruppo.
 
Da qui la svolta. Che, come le multinazionali ancora insegnano, sarà rapida e determinata. Ovvero l’acquisita percezione del rischio genererà una reazione in grado di rilanciare il business che, facendo leva su una forte contrazione dei costi, si focalizzerà sui marchi che avevano colpito l’immaginario collettivo dei giovani di mezzo mondo.
 
È una sfida interessante. Che dimostra come esista ancora in Italia un capitalismo familiare in grado di giocare sul mercato globale, senza perseguire la strada di altre grandi famiglie che hanno preferito cedere i loro “gioielli” agli stranieri, come è accaduto per gli epigoni dei Marzotto che hanno liquidato non solo la economicamente poco smagliante Valentino ma anche la più che efficiente (merito di Salzer!) Hugo Boss. Il che sta a dire che esistono ancora imprenditori che, dopo le sirene delle utilities, sanno ritornare alla concretezza del prodotto manifatturiero. È un buon segno.