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su monitor, il settimanale di veneziepost
Bene,
ormai è certo. La Benetton, dopo aver
perso ricavi, profitti e smalto, e dopo aver tergiversato sul come uscire da una crisi strutturale (la
sua, non quella mondiale), ha finalmente deciso di percorrere la strada della
riorganizzazione e di focalizzarsi sul cor business, il che nel
caso specifico significa dismettere i marchi minori e concentrarsi su quelli
storici di United Colors of Benetton e Sisley. È questo il mandato che sarà
affidato al nuovo a.d., che rumors insistenti – seppure
smentiti da Ponzano – indicano nel tedesco Bruno Salzer, già uomo forte di Hugo
Boss nell’era Marzotto: un manager che ha dato buona prova nel
rilancio di aziende dal profilo appannato, e la cui solida esperienza nel
settore dell’abbigliamento ben si integrerebbe in una organizzazione che ha
sempre visto l’azionista maggioritario opportunamente defilato rispetto alla
gestione concreta del business.
Indipendentemente
da chi affiancherà Alessandro
Benetton nel restyling di Ponzano, può essere utile
soffermarci su alcune caratteristiche di quella che è stata indubbiamente la
prima azienda “globale” del nostro paese, o almeno la prima che su un mercato
globale ha giocato la propria immagine: a partire da quel “made in EU” che
sostituì il “made in Italy” nelle sue etichette, e che tanto scandalo fece
all’epoca. Quell’etichettatura stava a significare la vocazione non provinciale
di una iniziativa imprenditoriale che intuì presto il vantaggio competitivo di
essere glocal, un vantaggio poi colto a piene mani e che si rivelò
in grado di generare per anni e anni rilevanti profitti e una straordinaria liquidità.
Profitti
e liquidità che andavano in qualche modo collocati, e da lì iniziò una strisciante scissione tra i
Benetton e il loro business, con investimenti che portarono a
importanti perdite (l’avventura nelle attrezzature e abbigliamento sportivo),
poi sostituiti da un interesse a mio parere eccessivo nelle utilities (dalle
autostrade alla ristorazione, da Telecom ad Alitalia), via via diversificando.
Tali
strategie davano per scontato che il business principale avrebbe continuato a
godere ottima salute. L’essere il primo grande gruppo globale
nell’abbigliamento informale sembrava fornire certezza in una espansione
continua. Non fu così: errori in più di qualche collezione, appesantimento dei
costi dovuti a una organizzazione che da snella si era appesantita, l’emergere
di competitors aggressivi (Zara, e H&M) in grado di
proporre nuovi stili e di catturare, con prezzi più bassi e modelli
continuamente rinnovati, quelle giovani generazioni sulle quali Ponzano aveva
costruito il successo, determinarono una progressiva caduta di redditività,
deteriorandone l'immagine friendly.
È noto
come le multinazionali attive nei settori tradizionali non siano molto veloci ad avvertire la
gravità di una stagnazione/caduta delle vendite, spesso banalizzata come congiunturale.
Così fu per i Benetton che, in altre faccende affaccendati (incombevano i
problemi di Telecom, e poi di Alitalia), non percepirono immediatamente i
rischi impliciti di questa disaffezione verso i marchi – invero incongruamente
cresciuti di numero – del loro gruppo.
Da qui la
svolta. Che, come le
multinazionali ancora insegnano, sarà rapida e determinata. Ovvero l’acquisita
percezione del rischio genererà una reazione in grado di rilanciare il business che,
facendo leva su una forte contrazione dei costi, si focalizzerà sui marchi che
avevano colpito l’immaginario collettivo dei giovani di mezzo mondo.
È una
sfida interessante. Che
dimostra come esista ancora in Italia un capitalismo familiare in grado di
giocare sul mercato globale, senza perseguire la strada di altre grandi
famiglie che hanno preferito cedere i loro “gioielli” agli stranieri, come è
accaduto per gli epigoni dei Marzotto che hanno liquidato non solo la
economicamente poco smagliante Valentino ma anche la più che efficiente (merito
di Salzer!) Hugo Boss. Il che sta a dire che esistono ancora imprenditori
che, dopo le sirene delle utilities, sanno ritornare alla concretezza del prodotto manifatturiero. È un buon segno.
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