sabato 22 marzo 2014

La Paolini-Villani & C., storica azienda alimentare di Venezia-Marghera



Scrissi poco dopo aver avviato il Blog che quest'anno mi sarei occupato della Paolini-Villani & C., una storica impresa alimentare di Venezia-Marghera cessata nei primi anni '90 del secolo scorso.
Si tratta di un progetto editoriale che coinvolge, oltre a me, quattro studiosi di cose veneziane e mestrine, tra i quali un esperto di comunicazione pubblicitaria, Massimo Orlandini. Il cui saggio sarà, invero, il pezzo forte del volume cui mira la ricerca, stante che la ditta di cui qui si tratta fece fin dai primissimi anni del '900 un uso intenso della pubblicità, o – meglio – della réclame, come all'epoca si diceva. E non poteva essere altrimenti, trattandosi di prodotti di largo consumo, e di basso prezzo unitario, che – non differenziandosi più di tanto dalla concorrenza – abbisognavano di un insistente sostegno pubblicitario in grado di convincere la massaia a preferirli.
La ditta origina dall’intraprendenza di Alessandro Zoppolato, la cui madre Rosa Lantzmann gestiva una avviata drogheria in campo S. Felice a Venezia. Egli si munì nel 1889 di un macinino meccanico, grazie al quale iniziò a proporre in negozio una assoluta novità: spezie e droghe miscelate secondo ricette che incontrarono il favore della clientela. Quel primo esito lo portò presto a estendere il giro d’affari, rifornendo drogherie terze sia in città che al Lido, approdando anche in terraferma. Da lì alla costituzione di una specifica ditta il passo fu breve; essendo tuttavia ancora minorenne, e non potendo quindi agire in commercio per proprio conto, il cognato Luigi Paolini – che della drogheria teneva la contabilità – registrò per lui nel 1891 alla Camera di Commercio la ditta Paolini, che nel 1895 divenne Paolini e Villani grazie all’ingresso come socio di capitali di un anziano mercante milanese che, acquisendo una quota del 50%, favorì l'abbrivio della piccola impresa. Questa, nel 1905, spostò la sua officina di produzione a S. Marcuola, in locali più ampi: ormai l’attività era uscita dall’ambito locale, e si estendeva in crescenti aree della pianura padana grazie all’impegno di alcuni commessi viaggiatori che, battendo a tappeto le drogherie dell’Alta Italia, erano riusciti in poco tempo a creare una rete commerciale che arrivava fino a Torino e al resto Piemonte. Al cui rafforzamento concorse successivamente un venditore più bravo di altri, tal Antonio Bertolini, che nel 1927 si mise in proprio dando vita a un marchio ancor oggi attivo nella stessa tipologia merceologica dei preparati per cucina, se pure in mano a una multinazionale straniera.
Ma ritorniamo alla Paolini e Villani, che proprio nel 1905, con il subentro di Ovidio Palma nella quota di Villani, modificò la propria ragione sociale in Paolini-Villani & C. di Palma e ZoppolatoNegli anni successivi la ditta, che fino ad allora manipolava e intermediava spezie e droghe acquisite da grossisti italiani usi a trafficare con l’estero, iniziò a importare il proprio fabbisogno direttamente dai mercati d’origine e, per quanto riguarda le spezie provenienti dalle Indie Orientali Olandesi (l’attuale Indonesia), dai centri olandesi abilitati alla loro commercializzazione. Grazie a questi nuovi flussi, di cui talvolta riusciva ad avere l’esclusiva per il proprio insediamento territoriale, e poco dopo essersi insediata (1913) nello stabilimento a vapore costruito in via Ca' Marcello a Mestre, nei pressi dello scalo ferroviario, la Paolini-Villani cominciò a cimentarsi con i primi prodotti a marchio registrato, a partire dalla Droga combinata Paolini e dal Fior di droga Paolini. Il che stava a significare l'acquisizione da parte della ancor giovane impresa del vantaggio competitivo derivante a prodotti di basso prezzo dalla privativa industriale. 
Contemporaneamente, e in modo simile a quanto accadde ad altre ditte del settore, l'azienda mestrina affiancò alla macinazione e alla mescolatura delle droghe la produzione, a marchio Sterminio, di insetticidi per la disinfestazione di ambienti domestici e di lavoro (ad es. le stalle), o ad uso individuale. In questo caso si trattava di soffietti contenenti polvere di piretro, per i quali poi durante il primo conflitto mondiale ottenne qualche commessa da parte del nostro esercito. Il dopoguerra coincise con l'avvio di una ulteriore diversificazione, questa volta non produttiva, bensì commerciale, e ciò grazie all'assunzione della distribuzione per il Veneto e la riviera adriatica di un prodotto inglese di pregio, il tè Lipton. Una scelta rafforzata dall'accordo stretto nel 1927, grazie al quale la licenza esclusiva di commercializzazione venne estesa a tutto il paese. Questa variante mercantile determinò l'espansione dell'attività aziendale, stante che la licenza affidava alla Paolini-Villani, per economia di costo, anche il confezionamento del prodotto: che avveniva in scatole di latta (le bustine arrivarono negli anni Cinquanta) a partire dal tè che giungeva dall'Inghilterra in sacchi di iuta. Il vantaggio per la ditta mestrina non fu rappresentato solo dall'incremento di ricavi e profitti, ma anche dal fatto che il tè inglese divenne il canale per raggiungere clientela nuova, cui era poi facile proporre i propri prodotti. Il portafoglio dei quali andò arricchendosi di altri preparati e/o surrogati, tra i quali assunse presto rilievo il Budino dei Dogi (1927 ca.). La rete di vendita si era ormai estesa a tutto il paese, e giocava da un lato sull'agente o sul commesso viaggiatore che andava a proporre al singolo dettagliante i prodotti della ditta, e dall'altro sul riassortimento che il cliente attivava autonomamente via posta.
Gli anni Trenta furono segnati dalla scomparsa di Alessandro Zoppolato (1933), che comportò il passaggio alla Presidenza di Ovidio Palma nonché l'assunzione di responsabilità aziendali da parte sia del figlio di costui, Egidio, che del figlio del fondatore, Gino Zoppolato, già comunque da tempo attivi nella gestione ordinaria. Ma il decennio vide anche la messa a punto di un prodotto, Ovocrema (1936), che fu poi a lungo, anche nel dopoguerra, prodotto di punta della ditta, rendendola affermato competitor nazionale del comparto. Lo slancio di quel decennio venne frustrato nel marzo del 1941, quando lo stabilimento venne distrutto da uno dei tanti bombardamenti che durante il secondo conflitto mondiale si abbatterono sullo strategico snodo ferroviario di Mestre. La produzione venne trasferita provvisoriamente a Zero Branco, presso Villa Guidini, che rimase sede operativa della Paolini-Villani fino al 1950, quando un incendio la colpì gravemente. Essa riuscì comunque a ripartire in un lasso di tempo abbastanza breve, recuperando parte dell'opificio mestrino e avviando contatti per reperire un insediamento di maggiori dimensioni. Che fu individuato nell'ex Cotonificio Veneziano di via F.lli Bandiera a Porto Marghera, dove  nel 1953  fu trasferita la quasi totalità delle linee produttive. Nel frattempo erano entrati in azienda anche altri figli dei due soci, in particolare Piero Zoppolato che assunse la responsabilità, invero strategica, del settore commerciale, mentre il padre Gino si occupava del settore finanziario, e della pubblicità: campi invero tra loro molto diversi, ma che egli seppe gestire con singolare efficacia.
Ai prodotti di punta rappresentati da The Lipton e da Ovocrema se ne affiancarono presto altri, assicurando alla ditta crescente successo e notorietà: tra questi Fast, un preparato per cioccolato in tazza (1961) che riscosse una discreta accoglienza per la immediatezza della sua preparazione. Ma era Ovocrema a identificare la casa veneziana. Con una produzione giornaliera di circa 25mila bustine, questo preparato che assicurava di poter preparare torte, focacce, ciambelle e pasticceria in genere senza bisogno di uova, era sostenuto da una campagna pubblicitaria capillare nei giornali femminili più diffusi, ma anche in un numero incredibile di piccole testate locali che veicolavano il messaggio della "affidabilità" e della "concretezza" del prodotto. Un prodotto friendly, che regalava ricettari e istruzioni per l'uso, nonché una raccolta punti che, al pari di case di ben altre dimensioni e forza economica, proponeva regali che fidelizzavano la clientela. 
  
le immagini sono degli anni Trenta del '900,
come attesta la sigla S.A. (Società Anonima) della denominazione sociale
   
Il sostegno pubblicitario non si limitò, tuttavia, alla carta stampata ma si estese  caso del tutto anomalo date le piccole dimensioni dell'azienda, e gli elevati costi di tale strumento – al mezzo televisivo, ovvero agli spazi che la RAI aveva messo a disposizione degli inserzionisti all'interno di "Carosello". Furono cinque gli spot che vennero approntati nel giro di alcuni anni dalla Paolini-Villani per un numero di "passaggi" al momento ignoto. Ne ho ritrovato uno in youtube, che pubblicizzava sia il tè Lipton che Ovocrema, e ad esso rinvio per dar conto dell'attività di comunicazione della casa veneziana:
Carosello Ovocrema - metà anni '60
Nel 1963 i Palma uscirono dalla compagine azionaria della Paolini, che rimase quindi in capo alla sola famiglia Zoppolato, la quale andò sviluppando altre attività imprenditoriali, in parte contigue o complementari al business principale, e delle quali questa ricerca tenterà di dare ugualmente conto. La Paolini-Villani continuò a macinare risultati positivi, raggiungendo nel 1978 il maggior fatturato di sempre (6 mld di lire, equivalenti a ca. 20 mln € attualizzati), cui concorrevano in modo determinante gli oltre 200 mln di bustine di the Lipton e i ca. 4 mln di confezioni Fast e Ovocrema prodotte e vendute in quell'anno. La crisi, tuttavia, era imminente: l'anno dopo la società proprietaria del marchio Lipton venne acquisita dalla multinazionale anglo-olandese Unilever, la quale rescisse unilateralmente l'accordo che aveva consentito alla ditta lagunare di rendere Lipton il terzo marchio italiano per diffusione, a ridosso di due prodotti di massa quali il the della Star e il Tè Ati. Ciò causò non pochi problemi, sia dal punto di vista finanziario che commerciale, con una caduta verticale del fatturato che l'acquisizione della licenza di un altro marchio fu inefficace a contrastare. Gino Zoppolato decise di lasciare l'azienda, ritenendo nulla una sua possibilità di ripresa. Nel febbraio 1983 il capitale sociale venne azzerato per le perdite cumulate, e reintegrato ad opera del figlio Piero, che invece credeva ancora nel modello di business fino ad allora perseguito. E a ragione, dato che tra il 1984 e il 1986 la Paolini recuperò un qualche slancio, conseguendo un ancorché risicato attivo di bilancioLa collaborazione con la Pompadour Tè, filiale italiana della tedesca Teekanne, e altre ditte, porta al raggiungimento di un buon equilibrio che si rafforzò ulteriormente con l'acquisizione dell'esclusiva per l'Italia dell'irlandese Lyons Tea. Il ridimensionamento, comunque, si sentiva tutto, e così quando agli inizi del 1987 la F.lli Barbieri S.p.A. di Padova  attiva nella produzione liquoristica (suo l'Aperol, uno tra i più diffusi aperitivi a livello nazionale), e convinta che entrare nel settore dei preparati alimentari sarebbe stata una profittevole diversificazione  presentò una offerta d'acquisto, i Zoppolato decisero di aderirvi, e quindi di vendere. Il figlio di Piero, Alvise, rimase comunque in azienda come responsabile della produzione e degli acquisti. La Barbieri non riuscì tuttavia a far fruttare le competenze che la Paolini-Villani ancora poteva esprimere e, con non poca miopia, di lì a poco – nel novembre 1989 – la incorporò, con il risultato che, pur di contrarne i costi amministrativi, di fatto rinunciò al valore immateriale che essa poteva ancora esprimere.
Finiva così la storia della Paolini-Villani, ma per la Barbieri non andò meglio: essa fu di lì a poco oggetto di una acquisizione ostile da parte della irlandese Cantrell & Cochrane, che comprò la maggioranza del suo pacco azionario dai soci non gestori, costringendo il socio che la gestiva, parente dei primi, alla resa. La C&C, questa la denominazione poi assunta dalla multinazionale, mirava a impadronirsi della rete distributiva del brand Aperol, diffusa in tutto il paese, per aggredire più rapidamente il mercato italiano con i suoi prodotti ad alta gradazione. La focalizzazione del suo business, tutta mirata al beverage, la portò a chiudere la divisione alimentare di Marghera, chè tale era divenuta l'azienda veneziana per la Barbieri, trasferendo altresì la produzione di quest'ultima in Piemonte, presso la  Barbero 1891 S.p.A. di Canale d'Alba, suo braccio operativo. Per la cronaca, la Barbero 1891 è stata successivamente acquisita (dicembre 2003) dal Gruppo Campari, che con un brand di successo quale l'Aperol ha ancor più qualificato il suo già ampio portafoglio-prodotti.
Di questa ricerca di storia d'impresa: la ricerca, che si basa su una solida base documentaria raccolta negli archivi pubblici, in primis quelli della Camera di Commercio della provincia di Venezia e del Comune capoluogo, vede la fattiva collaborazione di Alvise Zoppolato: che ha fornito ai ricercatori le sopravvissute carte dell'azienda di famiglia, arricchendole con la propria testimonianza. L'obiettivo dei ricercatori (Silvana Alessandrini, Massimo Orlandini, Giampaolo Rallo, Giorgio Sarto e chi scrive) va tuttavia oltre la semplice ricostruzione della storia aziendale: essa, infatti, verrà vista all'interno di quel vero e proprio "polo alimentare che tra fine Ottocento e prima metà del Novecento andò formandosi tra Venezia capoluogo, Mestre e Marghera. Ed è un po' questo il contributo che, con il loro lavoro, gli autori intendono offrire alla partecipazione di Venezia all'EXPO MILANO 2015.







sabato 8 marzo 2014

Tecnolaser S.r.l., Curtarolo Padova: una anomala impresa meccanica della subfornitura con la "mission" dell'eccellenza

Questo profilo d’impresa appartiene a una ricerca sulle “eccellenze venete”, commissionata nel 2010 al Centro Interdipartimentale di Ricerche e Servizi “Giorgio Lago” dell’Università di Padova, che tuttavia non vide mai la luce per sopravvenute divergenze tra ricercatori e committenza sull’impianto che essa avrebbe dovuto avere.
Poiché non amo gli “inediti”, ho alla fine deciso di pubblicarne il testo come post a questo Blog: un testo che, sottoposto all’impresa “biografata” per la verifica di alcune informazioni, fu da questa ritenuto corretto.


Tecnolaser S.r.l., con sede a Curtarolo (Padova), nasce nel 1986 su iniziativa di Luigi Finco – a capo di due imprese di rilievo internazionale nei settori degli impianti avicoli e della refrigerazione commerciale – per decentrare in un impianto ad alta specializzazione la lavorazione delle lamiere e dei profilati di acciaio da queste utilizzati.
Dopo un promettente avvio, tale rapporto di subfornitura subì una progressiva contrazione, e l’azienda dovette trovare una diversa (e autonoma) collocazione sul mercato aperto.
Oggi l’azienda, certificata UNI EN ISO 9001, opera nel mercato “terzista” della lavorazione, costruzione e montaggio di carpenteria metallica medio-leggera, nonché della progettazione ed industrializzazione “su misura” di singole componenti meccaniche come di “insiemi” e nei cd. montaggi industriali. I suoi punti di forza sono costituiti dalla coprogettazione online con il cliente dei singoli prodotti e/o componenti, avvalendosi dei migliori sistemi CAD/CAM esistenti, e da un magazzino computerizzato che – con la alimentazione automatica delle varie macchine – consente di lavorare anche in ciclo non presidiato.
Nel suo portafoglio-clienti sono ormai presenti le principali imprese meccaniche di media e grande dimensione del nostro paese, nonché di significative aziende europee. Le prospettive nella attuale situazione congiunturale appaiono positive, tanto che Tecnolaser continua ad investire in formazione del personale e innovazione tecnologica in modo da essere sempre pronta e preparata alle richieste ed esigenze di un mercato sempre più in continuo rapido cambiamento.
Con circa 70 addetti, essa fattura 21 mln di € (2011), di cui il 13% indirizzato all’esportazione.
Una impresa non è mai scindibile da colui che l’ha costituita, e dal suo carattere: ciò vale in generale, ma è soprattutto riscontrabile in questo caso aziendale e nella ostinazione con la quale Luigi Finco è sempre riuscito a conseguire i suoi obiettivi.
Nato nel 1927 a Campo San Martino, comune dell’Alta Padovana, egli – conseguito il diploma di perito meccanico (1946) – iniziò a lavorare in una azienda agricola, dove si imbatté in uno dei primi impianti per l’allevamento industriale dei polli. All’epoca queste attrezzature provenivano dall’Olanda, e un po’ più tardi anche dall’America nell’ambito dell’ERP-European Recovery Program, il cd. Piano Marshall, con il quale gli Stati Uniti contribuirono alla rinascita economica dell’Europa occidentale dopo le gravissime distruzioni belliche che l’avevano martoriata.
A motivi del suo lavoro, Finco fu più volte in Olanda, e lì maturò l’idea di produrre in Italia quelle stesse attrezzature avicole che ormai ben conosceva, e che avrebbero potuto essere vendute a prezzi più contenuti di quelle d’importazione. La tecnologia era del resto all’epoca non troppo sofisticata, e ciò permise all’azienda artigianale avviata nel 1955 di ricavarsi un qualche profittevole mercato.
E si trattò di un mercato in rapida crescita, dato che l’allevamento avicolo appariva sempre più costituire una interessante diversificazione/integrazione dell’agricoltura basata sulla sola coltivazione della terra. Ciò spinse Finco a dotarsi di una struttura compiutamente industriale, unendosi a un altro socio e dando vita nel 1961 a quelle Officine Facco & C. poi S.p.A. – che sono, almeno dagli inizi degli anni Ottanta del Novecento, ai vertici mondiali di tale comparto meccanico
Poiché, tuttavia, e usando le sue parole, «cosa chiama cosa», egli intraprese due diversificazioni: da un lato la produzione di scaffali per i negozi di alimentari e per i primi supermercati che stavano sorgendo in alcune aree del paese, e dall’altro avviando nel 1962 la produzione di impianti di stoccaggio dei cereali attraverso la consociata Mulmix Facco S.r.l., ora semplicemente Mulmix.

Pur essendo quest’ultima una realtà che si insediò presto, e positivamente, nei mercati internazionali, è più interessante soffermarci sulla apparentemente incongrua diversificazione negli scaffali metallici, che – al contrario dei silos per cereali – nulla avevano a che fare con il mondo agricolo..… … …

Dato che la lunghezza del testo non si presta alle normali dimensioni di un post, esso è disponibile nella sua interezza all’indirizzo
http://www.giorgioroverato.eu/A/eccellenzevenete/G.Roverato-Tecnolaser-2011.pdf








Sirmax S.p.A., Cittadella (Padova): un'azienda chimica al servizio delle industria dell'automobile e degli elettrodomestici

Questo profilo d’impresa appartiene a una ricerca sulle “eccellenze venete”, commissionata nel 2010 al Centro Interdipartimentale di Ricerche e Servizi “Giorgio Lago” dell’Università di Padova, che tuttavia non vide mai la luce per sopravvenute divergenze tra ricercatori e committenza sull’impianto che essa avrebbe dovuto avere.
Poiché non amo gli “inediti”, ho alla fine deciso di pubblicarne il testo come post a questo Blog: un testo che, sottoposto all’impresa “biografata” per la verifica di alcune informazioni, fu da questa ritenuto corretto.


La Sirmax S.p.A., con sede a Cittadella (Padova), è nata nel 1999 da due preesistenti aziende (Sirte S.p.A., di Isola Vicentina, e la Maxplast S.r.l. di Cittadella), su iniziativa di Massimo Pavin (classe 1964), un imprenditore già attivo nel settore dei lavori stradali, e quindi lontano dal comparto chimico – quello della produzione di tecnopolimeri e resine termoplastiche a base di polipropilene – in cui essa è inserita. Tecnicamente può essere considerata una diversificazione degli investimenti, in realtà si trattò d’altro: una sfida con se stesso, e il desiderio di dimostrare di saper fare impresa senza la tutela del padre Giancarlo, affermato imprenditore nel settore delle costruzioni.
Egli, infatti – dopo la laurea in ingegneria civile, conseguita nel 1989 a Padova con il massimo dei voti, e un Master in Business Administration alla Bocconi cui seguì un periodo di approfondimento alla University of Florida (1990) – aveva iniziato a lavorare con il padre alla C.E.CAR., l’azienda da questi fondata nel 1961. La ricerca di autonomia lo portò dapprima a dar vita con un fratello alla Road Costruzioni Stradali (1991), una impresa che ha oggi una cinquantina di dipendenti e un buon insediamento sul mercato, e successivamente alla Maxplast (1992) il cui business iniziale fu il riciclo della plastica per la produzione di sedie e tavoli da giardino.
Si trattava di una produzione sostanzialmente “povera”, che a partire dal 1995 venne progressivamente sostituita con la lavorazione di tecnopolimeri e resine termoplastiche da destinare ad utilizzatori industriali terzi. Una scelta che portò poi alla fusione in Sirmax, e a successivi salti tecnologici che consentirono alla nuova compagine aziendale di raggiungere presto posizioni di eccellenza in un mercato sofisticato e competitivo. Oggi essa conta due stabilimenti produttivi in Italia (Cittadella e Tombolo), dove vengono lavorate annualmente circa 75.000 tonnellate di compound di polipropilene, ABS, policarbonato, poliammide ecc. utilizzate nell’industria degli elettrodomestici e dell’auto, e un terzo a Kunto, in Polonia, dove la produzione è assestata sulle 30.000 tonnellate. A ciò si aggiungono il polo logistico/distributivo di Isola Vicentina, nonché filiali commerciali in Francia, Germania e Spagna. Con un fatturato di approssimativi 140 mln di € nel 2011, e circa 150 addetti complessivi, l’azienda fornisce i principali gruppi europei dell’automobile e degli elettrodomestici.
Come è noto in letteratura, a volte le idee-business sono dovute alla casualità, e si consolidano nel tempo con percorsi non definibili a priori. E così è stato per Pavin:
«Stavo cercando un capannone a Cittadella per mettere al riparo le macchine operatrici della Road, e ne trovai uno in vendita a Carmignano di Brenta. Lo acquistai. Era un piccolo impianto per il riciclaggio delle materie plastiche. Quando mi trovai di fronte all’estrusore, quello che ora sta collocato nel piazzale dello stabilimento a ricordo di come è nata l’impresa, mi chiesi se non fosse quella la mia occasione per fare qualcosa che fosse lontana dalla sfera, dalle competenze e dall’influenza di mio padre. Mio fratello Roberto mi seguì nell’avventura, che ci portò nel giro di due anni a 8-10 mld di lire di fatturato. Il mercato c’era e rispondeva positivamente, ma io cercavo, volevo, qualcosa di tecnologicamente più sofisticato. Fu così che maturai la convinzione, stimolato anche da un nostro importante cliente della Bassa padovana, che fosse il momento di un deciso salto di qualità: dal riciclo, e da sedie e tavoli di plastica, alla produzione di compound per gli utilizzatori industriali. L’investimento, cui concorse pure la famiglia, e cioè mio padre, fu importante, ma vincemmo la sfida. Ero entrato in una dimensione nuova e, anche se avevo mio padre tra i soci, ero finalmente io il decisore delle strategie di sviluppo»… … …
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venerdì 7 marzo 2014

Industrie Cotto Possagno S.p.A., Possagno: una "impresa-distretto"

Questo profilo d’impresa appartiene a una ricerca sulle “eccellenze venete”, commissionata nel 2010 al Centro Interdipartimentale di Ricerche e Servizi “Giorgio Lago” dell’Università di Padova, che tuttavia non vide mai la luce per sopravvenute divergenze tra ricercatori e committenza sull’impianto che essa avrebbe dovuto avere.
Poiché non amo gli “inediti”, ho alla fine deciso di pubblicarne il testo come post a questo Blog: un testo che, sottoposto all’impresa “biografata” per la verifica di alcune informazioni, fu da questa ritenuto corretto.


Le Industrie Cotto Possagno, con sede a Possagno (Treviso), sono sorte nel 1998 in seguito alla fusione di cinque preesistenti aziende familiari dell'area. La società è andata presto posizionandosi come leader nazionale nella lavorazione del laterizio da copertura in cotto, con una incidenza particolarmente significativa (circa il 50%) nel segmento dei coppi. Essa produce altresì pavimenti e tavelle in cotto, sistemi di ancoraggio e ventilazione per coperture, e offre un servizio integrato per la progettazione delle stesse.
La produzione, realizzata in sei stabilimenti ad elevata specializzazione con circa 270 addetti, è prevalentemente assorbita dal mercato domestico, anche se l’export (il 15% ca. di un fatturato 2010 di 60 mln di €) è in tendenziale crescita.
Presidente della società è Alessandro Vardanega. Già in Arthur Andersen Italia, una esperienza decennale che gli è stata utile nell’affiancare la propria famiglia e gli altri partner nel processo di fusione, egli attualmente unisce alla responsabilità aziendale anche un forte impegno in Confindustria: è infatti presidente di Unindustria Treviso, una delle sue più vivaci strutture territoriali.
 “Cotto Possagno” è una impresa anomala nel pur variegato mondo imprenditoriale veneto, e ciò per almeno due motivi. Da un lato essa è la continuazione industriale di una lavorazione antichissima, quella della produzione dei coppi in cotto per la copertura delle abitazioni; e dall’altro la sua nascita ha avuto l’effetto di riassumere in una unica entità manifatturiera la pressoché totale attività di un intero distretto produttivo innovandone la vocazione.
Per dirla con le parole di Vardanega, raccolte in una intervista del 17 novembre del 2010, Cotto Possagno è una vera e propria impresa-distretto: caso in realtà unico nei distretti industriali italiani, la cui caratteristica – è noto – è quella di una pluralità di aziende di piccola e media dimensione, dove solo in pochi casi riesce a emergere una vera e propria impresa-leader. Nel caso dell’area di Possagno – dove insiste un importante bacino di argilla che, dopo aver soddisfatto per secoli il limitato fabbisogno locale, alimentò a lungo la domanda di coppi per i tetti della Serenissima – sul volgere del secolo accadde che cinque delle sette imprese lì esistenti si fusero tra loro, dando vita a un unico organismo produttivo.
Il posizionamento presto raggiunto sul mercato nazionale non è stato tuttavia il mero risultato di una somma aritmetica delle capacità produttive delle aziende confluite nella nuova struttura societaria, bensì l’esito virtuoso di una calibrata attenzione alle economie di scala e, soprattutto, di una strategia tesa all’innovazione (di processo e di prodotto) e alla valorizzazione del patrimonio immateriale di conoscenze e di abilità sedimentato nel territorio.
Ma quali furono le motivazioni che portarono imprese tra loro concorrenti a unirsi, superando spirito identitario e tradizione familiare? E quali le tappe di un successo che – all’inizio del percorso – appariva ai suoi stessi protagonisti tutt’altro che scontato? In questo caso imprenditoriale, forse più che in altri, emerge come il pervasivo intreccio tra tradizione e innovazione sia paradigmatico di uno dei tornanti della transizione veneta alla modernità.
Cominciamo dalla tradizione familiare. Le cinque imprese che diedero vita a Cotto Possagno, pur condotte come società di capitali, appartenevano a famiglie riconducibili a due cognomi storici del territorio, i Vardanega e i Cunial, che da molto tempo continuavano nel possagnese la tradizione dei laterizi, e in particolare dei coppi, il brand storico dell’area. L’impresa della famiglia Vardanega, costituita come società di persone nel 1960, era erede di una precedente attività esercita dal nonno sotto forma di ditta individuale. Un percorso di lunga durata, quindi, non dissimile da quello delle altre aziende che, nel corso del 1997, perseguirono l’idea di una comune avventura imprenditoriale… … …

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Grupppo Modulo S.r.l., Padova: una "impresa" di consulenza globale

Questo profilo d’impresa appartiene a una ricerca sulle “eccellenze venete”, commissionata nel 2010 al Centro Interdipartimentale di Ricerche e Servizi “Giorgio Lago” dell’Università di Padova, che tuttavia non vide mai la luce per sopravvenute divergenze tra ricercatori e committenza sull’impianto che essa avrebbe dovuto avere.
Poiché non amo gli “inediti”, ho alla fine deciso di pubblicarne il testo come post a questo Blog; un testo che, sottoposto all’impresa “biografata” per la verifica di alcune informazioni, fu da questa ritenuto corretto. 


Gruppo Modulo è l’esito ultimo di un percorso imprenditoriale avviato nel 1990 da Bruno Luciani: un manager che – dopo aver operato in tre aziende d’eccellenza del Veneto del secolo passato (la Morassutti, l’Aprilia e la Morellato), conseguendovi risultati di rilievo – decise di sfruttare le proprie competenze nella consulenza di Direzione d’impresa.
Oggi Gruppo Modulo è una azienda di consulenza globale che, nel tempo, ha esteso il suo irradiamento territoriale da Padova a Treviso, Bergamo e Milano. Essa conta tuttavia tra la sua clientela anche importanti gruppi industriali e bancari situati nei centri nevralgici dell’economia del Nord Italia. Forte dell’esperienza acquisita nel supportare i processi di internazionalizzazione di alcune imprese venete, nel 2012 l’azienda padovana (certificazione ISO 9001:2008) ha costituito a Cracovia una società che ha l’obiettivo non solo di supportare quanti tra i suoi clienti già operavano in Polonia, ma anche di trasferire e sperimentare in quel dinamico mercato il proprio collaudato know-how nel settore della direzione aziendale.
Essa opera attraverso due divisioni:: Modulo Marketing, che si occupa delle tematiche e delle strategie della Direzione d’impresa e Formazione manageriale, e Modulo Innovazione, vocata alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane. La sede centrale è localizzata nella Zona Industriale del capoluogo euganeo (Zip), che costituisce la più importante area di logistica del Nordest, strategica nell’interscambio italiano con l’Europa orientale e la Russia, nonché una delle principali del paese.
Con circa 30 tra dipendenti diretti e collaboratori, essa fattura oltre 1,5 mln di € (2011), di cui il 50 % nel campo delle risorse umane e formazione dove ha conseguito risultati rilevanti.
In realtà, quella di Luciani fu una carriera manageriale di rilievo. Conviene richiamarne alcuni passaggi, che sono poi alla base del suo impegno nella consulenza d’impresa, tutta basata sulla spinta all’innovazione. E non è un caso che il motto della sua impresa stia in tre parole (“Coraggio, Passione, Energia”) che si ripetono, in una sorta di mantra, nella stessa modulistica aziendale.
Diplomatosi perito industriale all’I.T.I.S. Marconi, una delle scuole storiche del capoluogo euganeo, egli entrò nel 1971 in Morassutti come buyer, e subito dopo come caposervizio acquisti di un comparto relativamente nuovo per quell’azienda, quello del modellismo e del bricolage. La Morassutti operava, attraverso una quarantina di filiali, su tre aree di business: l’ingrosso, il dettaglio al consumo, e il dettaglio professionale. Il comparto affidato a Luciani apparteneva al “dettaglio al consumo”, e – grazie al mix di articoli che egli riuscì a mettere in campo – crebbe rapidamente in ricavi e profitti. Fu un risultato che convinse l’azienda ad affidargli la responsabilità di product manager della divisione ingrosso, e a seguire (con il cambio di proprietà, che portò l’azienda padovana nell’orbita della Banca Privata Italiana di Sindona) la direzione marketing di tutte le divisioni, dove tra l’altro perseguì l’allargamento a circa una trentina di esercizi della rete in franchising. Fu un tentativo generoso di contrastare il declino cui le attività speculative di Sindona stavano condannando la Morassutti, ma ciò – nonostante due ulteriori (e confusi) passaggi proprietari – non bastò e per l’azienda fu la fine.
Un epilogo, tuttavia, cui Luciani non assistette, essendo stato nel 1981… … …

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lunedì 24 febbraio 2014

CADORO S.p.A.: i 50 anni di una piccola ma efficiente catena della GDO a controllo familiare


Questo post nasce da una conversazione, alcuni mesi or sono, con due componenti la famiglia imprenditoriale che controlla una piccola catena di Supermercati, la Cadoro S.p.A. di Quarto d'Altino (Venezia), i quali mi parlarono dell'intenzione di ricordare i cinquant'anni di vita della loro organizzazione di vendita inquadrandola nel contesto regionale (il Veneto) dove principalmente essa opera, e in quello più generale della GDO.
Una intenzione che mi apparve subito di interesse, perché  rigettando l'ipotesi di effimere celebrazioni giubilari  si proponeva di mettere in luce il ruolo che la nascita di razionali organizzazioni di distribuzione dei beni alimentari ha avuto non solo nella modernizzazione del nostro paese, ma anche nel cambiamento dei modi di acquistare/consumare i beni alimentari.
Occupandomi per mestiere di storia d'impresa, rimasi favorevolmente colpito dall'idea che due giovani imprenditori, coinvolti oggi dal padre nel passaggio generazionale, si ponessero il tema della storicizzazione della attività di famiglia, vista non tanto dal punto di vista del successo economico, quando del contributo fornito alla comunità territoriale cui quella esperienza appartiene.
Poiché sul tema esiste ancora una scarsa letteratura, per di più rivolta ai soli addetti ai lavori, provo a sviluppare alcune considerazioni, tenendo anche a mente che il tema dell'alimentazione, oggetto di EXPO MILANO 2015, si intreccia per forza di cose con la differenziata efficienza/correttezza delle variegate filiere di operatori che ruotano attorno ad essa.
La piccola catena veneta origina, nel 1964, dalla macelleria-gastronomia che Cesare Bovolato aveva aperto pochi anni prima a Mestre, la frazione veneziana di terraferma che andava all'epoca conoscendo una forte crescita demografica indotta dallo spostamento di parte della popolazione della città lagunare.
La nascita di Cadoro è in sostanza parte del nuovo modo di concepire la distribuzione alimentare sviluppatosi in Italia grazie all'iniziativa di Nelson Rockfeller, uomo d'affari e politico statunitense, che nel 1957 aveva dato vita  con alcuni soci italiani, tra cui la famiglia degli industriali cotonieri Caprotti  alla Supermarkets Italiani S.p.A. Fu una combine da cui Rockfeller uscì tuttavia presto, cedendo proprio ai Caprotti la sua quota del 51%.
Nel 1965, con l'assunzione della sua guida da parte di Bernardo Caprotti e il più o meno contemporaneo abbandono dei restanti soci italiani, la catena  più tardi ribattezzata Esselunga dalla "esse" allungata disegnata per l'insegna dei punti vendita dall'affermato designer svizzero Max Huber  era costituita da 15 supermercati, 10 a Milano e 5 a Firenze. Il che testimoniava di un radicamento ancora lento della nuova forma distributiva, anche se nei primi anni Settanta il trend di sviluppo andò accelerandosi. E ciò perché il crescente volume d'affari realizzato dalla società andò generando effetti imitativi, con l'ingresso di nuovi operatori che, dopo essersi insediati dapprima nella capitale, e poi a Napoli, Genova e Torino, si estesero rapidamente in un numerosi altri capoluoghi di provincia.

Fu in questo contesto che la macelleria-gastronomia mestrina dei Bovolato cominciò ad estendere il giro d’affari grazie all’apertura di altri punti vendita, così partecipando all’avventura della moderna distribuzione alimentare in un paese appena investito dal cd. miracolo economico che andava trasformando il paese in una economia compiutamente industriale. Solo che l’obiettivo di questa iniziativa imprenditoriale, contrariamente ai Caprotti che miravano a un insediamento a vasto raggio, apparve subito legata all’ambito veneto. Con ciò dando vita a un originale rapporto con il territorio. È noto come una impresa – ogni impresa – sia legata, soprattutto nel nostro paese, sia naturalmente legata al territorio nel quale essa nasce. E poiché Cadoro nasceva in Veneto, il contesto in cui essa andò crescendo fu quello di una regione divenuta di fatto una sorta di area-cerniera tra un Nordovest a maggior sviluppo relativo e un Sud miserabile. Un Veneto in cui dovevano convivere a lungo sia gli elementi della modernità (il polo industriale di Porto Marghera ad alta intensità di capitale, ma anche gli antichi centri lanieri dell’Alto vicentino), sia l’arretratezza e la marginalità del rodigino e del bellunese.

Sarà interessante, se i propositi dei giovani Bovolato troveranno sbocco in qualche studio dall’azienda commissionato, capire le modalità da questa seguite nella propria crescita, il vantaggio competitivo di alcuni insediamenti (oggi sono venticinque, la maggior parte in Veneto, con alcune propaggini in Emilia-Romagna e in Friuli), nonché i vari momenti innovativi di cui essa è stata protagonista: anche quelli apparentemente banali, come ad es. l’introduzione del latte fresco che Cadoro realizzò prima di altre catene, o quelli di “governance” con l’affidamento da parte del fondatore di deleghe di peso ai figli, cosa – ahimè  ancora non usuale nelle imprese a controllo familiare.
Personalmente mi incuriosisce – stanti le limitate dimensioni del gruppo, peraltro qualche anno fa appetito da una catena spagnola (Mercadona S.A., quasi 1.500 punti vendita) che intendeva acquisirla per testare le possibilità di uno "sbarco" in Italia –  la scelta, invero strategica per il consolidamento del marchio, di affiancare una propria private label a quella del gruppo d’acquisto cui l’azienda aderisce. Anche in questa politica si scorge l’originalità del caso di studio qui a grandi tratti descritto.
È comunque l’intero settore della GDO che è opportuno sia oggetto di indagine storiografica, se non altro per il ruolo che essa ha assunto – dopo una prima stagione di massificazione/standardizzazione dell’offerta – nell’affinamento di più consapevoli stili di consumo individuali e collettivi, e quindi nella proposta di prodotti qualitativamente migliori, di cui proprio la private label è stata non poche volte (e lo sarà ancor di più in futuro) canale privilegiato, nonché elemento di differenziazione e di marketing





domenica 23 febbraio 2014

Il risveglio di Ponzano, ovvero del nuovo inizio della Benetton

qs post riproduce l'articolo comparso oggi
su monitor, il settimanale di veneziepost


Bene, ormai è certo. La Benetton, dopo aver perso ricavi, profitti e smalto, e dopo aver tergiversato sul come uscire da una crisi strutturale (la sua, non quella mondiale), ha finalmente deciso di percorrere la strada della riorganizzazione e di focalizzarsi sul cor business, il che nel caso specifico significa dismettere i marchi minori e concentrarsi su quelli storici di United Colors of Benetton e Sisley. È questo il mandato che sarà affidato al nuovo a.d., che rumors insistenti – seppure smentiti da Ponzano – indicano nel tedesco Bruno Salzer, già uomo forte di Hugo Boss nell’era Marzotto: un manager che ha dato buona prova nel rilancio di aziende dal profilo appannato, e la cui solida esperienza nel settore dell’abbigliamento ben si integrerebbe in una organizzazione che ha sempre visto l’azionista maggioritario opportunamente defilato rispetto alla gestione concreta del business.
 
Indipendentemente da chi affiancherà Alessandro Benetton nel restyling di Ponzano, può essere utile soffermarci su alcune caratteristiche di quella che è stata indubbiamente la prima azienda “globale” del nostro paese, o almeno la prima che su un mercato globale ha giocato la propria immagine: a partire da quel “made in EU” che sostituì il “made in Italy” nelle sue etichette, e che tanto scandalo fece all’epoca. Quell’etichettatura stava a significare la vocazione non provinciale di una iniziativa imprenditoriale che intuì presto il vantaggio competitivo di essere glocal, un vantaggio poi colto a piene mani e che si rivelò in grado di generare per anni e anni rilevanti profitti e una straordinaria liquidità.
 
Profitti e liquidità che andavano in qualche modo collocati, e da lì iniziò una strisciante scissione tra i Benetton e il loro business, con investimenti che portarono a importanti perdite (l’avventura nelle attrezzature e abbigliamento sportivo), poi sostituiti da un interesse a mio parere eccessivo nelle utilities (dalle autostrade alla ristorazione, da Telecom ad Alitalia), via via diversificando.
 
Tali strategie davano per scontato che il business principale avrebbe continuato a godere ottima salute. L’essere il primo grande gruppo globale nell’abbigliamento informale sembrava fornire certezza in una espansione continua. Non fu così: errori in più di qualche collezione, appesantimento dei costi dovuti a una organizzazione che da snella si era appesantita, l’emergere di competitors aggressivi (Zara, e H&M) in grado di proporre nuovi stili e di catturare, con prezzi più bassi e modelli continuamente rinnovati, quelle giovani generazioni sulle quali Ponzano aveva costruito il successo, determinarono una progressiva caduta di redditività, deteriorandone l'immagine friendly.
 
È noto come le multinazionali attive nei settori tradizionali non siano molto veloci ad avvertire la gravità di una stagnazione/caduta delle vendite, spesso banalizzata come congiunturale. Così fu per i Benetton che, in altre faccende affaccendati (incombevano i problemi di Telecom, e poi di Alitalia), non percepirono immediatamente i rischi impliciti di questa disaffezione verso i marchi – invero incongruamente cresciuti di numero – del loro gruppo.
 
Da qui la svolta. Che, come le multinazionali ancora insegnano, sarà rapida e determinata. Ovvero l’acquisita percezione del rischio genererà una reazione in grado di rilanciare il business che, facendo leva su una forte contrazione dei costi, si focalizzerà sui marchi che avevano colpito l’immaginario collettivo dei giovani di mezzo mondo.
 
È una sfida interessante. Che dimostra come esista ancora in Italia un capitalismo familiare in grado di giocare sul mercato globale, senza perseguire la strada di altre grandi famiglie che hanno preferito cedere i loro “gioielli” agli stranieri, come è accaduto per gli epigoni dei Marzotto che hanno liquidato non solo la economicamente poco smagliante Valentino ma anche la più che efficiente (merito di Salzer!) Hugo Boss. Il che sta a dire che esistono ancora imprenditori che, dopo le sirene delle utilities, sanno ritornare alla concretezza del prodotto manifatturiero. È un buon segno.